21 Feb

Il PESO DEL VUOTO
di Barbara Pavan
La via che conduce da un ipotetico matriarcato arcaico attraverso le società patriarcali fino ad un’emancipazione femminile
che finalmente rappresenti un autentico equilibrio tra i sessi, rispettoso dell’individuo e delle sue peculiarità, è lunga e
lastricata di insuccessi e di vittime sacrificali. Affermare il diritto alla libertà delle donne di essere sé stesse affrancandosi da
modelli e stereotipi imposti da altri è stato un processo lento, disseminato di ostacoli, segnato da vittorie e da sconfitte,
tuttora in fieri e purtroppo non omogeneo e trasversale in tutte le culture e i paesi alle diverse latitudini.
Da qualunque punto di partenza e di approdo si misuri l’evoluzione della condizione femminile, ne risulta il tempo biblico
che ogni cambiamento in questa direzione ha richiesto. Basti pensare che dalla prima ‘Dichiarazione dei diritti della donna e
della cittadina’ redatta da Olympe de Gouges nel 1791 alla concessione (da parte degli uomini) nel 1946 del pieno diritto di
voto (e dunque anche l’eleggibilità) alle donne italiane trascorre oltre un secolo e mezzo.
Salvo alcuni rari esempi isolati di etnie – i Mosuo o i Cuna ad esempio – tutt’oggi matriarcali, il modello patriarcale che si è
universalmente diffuso ha per lo più relegato le donne in una posizione di inferiorità consegnando loro di fatto un fardello di
pesi e di vuoti che ne hanno soffocato per generazioni sogni, aspettative, alternative, possibilità ovvero – in sintesi – la
libertà. Dal punto di osservazione dei paesi occidentali potrebbe sembrare una riflessione superflua e ormai superata dalla
realtà ma non è così. Qualche dato: sono stati 120 i femminicidi in Italia nel corso del solo anno appena trascorso; a giugno
2022 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade con la quale, nel 1973, era stato
sostanzialmente sancito il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza; a livello mondiale si stima ad oggi che tra i 100
e i 130 milioni di ragazze e donne abbiano subito mutilazioni genitali; in Afghanistan le donne sono state recentemente
escluse dall’accesso all’istruzione scolastica; a settembre 2022 la ventiduenne Mahsa Amini è stata fermata e arrestata dalla
polizia iraniana perché non indossava correttamente l’hijab ed è deceduta pochi giorni dopo innescando un’onda di
ribellione che dura tuttora nel paese e con eco in tutto il mondo. Dunque la condizione femminile nella sua complessità e
con le sue difficoltà deve rimanere al centro dell’attenzione poiché non tutte le conquiste purtroppo sono irrevocabili e,
soprattutto, è impensabile arrendersi fino a quando anche l’ultima donna avrà conquistato il diritto alla libertà.
Questa premessa era necessaria per introdurre “Il peso del vuoto” la mostra personale di Donatella Giagnacovo, artista che
da anni pone al centro della propria ricerca la questione femminile nella sua globalità. La percezione ingannevole che molte
delle istanze legate ai diritti negati non riguardi direttamente la nostra quotidianità o l’indifferenza che troppo spesso
distoglie il nostro sguardo da ciò che ci circonda lascia pericolosamente aperta la porta ad infiltrazioni e rigurgiti dal passato
che in nome di una presupposta tolleranza e di una fraintesa rispettosa astensione dal giudizio e dall’intromissione nei
comportamenti altrui rischia di perpetrare la discriminazione di molte donne lasciate sole a combattere una battaglia impari
anche in seno alle società metropolitane più ‘avanzate’. Elena Gianini Belotti nel suo testo fondamentale pubblicato negli
anni ’70 “Dalla parte delle bambine” scriveva a proposito di quanto i pregiudizi siano radicati e interiorizzati profondamente
che “per confutarli e distruggerli occorre non solo una notevolissima presa di coscienza ma anche il coraggio della ribellione
che non tutti hanno. La ribellione suscita ostilità (…) E dove mai le donne, impoverite programmaticamente di coraggio
proprio dall’educazione che viene loro impartita, potrebbero trovarne per opporsi ai pregiudizi che le riguardano? Il loro senso
d’inferiorità, d’insicurezza, la convinzione che è giusto che siano loro a pagare il prezzo più alto perché in cambio ottengono
considerazione e rassicurazione, ne fanno delle conservatrici timorose di cambiamenti, anche quando tornino, a lungo
termine, a loro vantaggi

Se pensate che queste righe appartengano a un tempo che non è più, riflettete se, ad esempio, mai vi siete sentiti dire,
anche da donne tra le più giovani, che il compagno o il marito le ‘aiuta in casa’ o con i bambini: perché in questa semplice
frase è racchiusa l’attribuzione di un ruolo e di un onere – quello della gestione domestica – alla donna e di un
riconoscimento e dunque una sorta di gratitudine per la generosità nella condivisione del medesimo (che, si badi bene, non
è quindi dovuta) all’uomo.
L’installazione di Giagnacovo conduce ad una osservazione capillare dei fenomeni, ad una analisi certosina delle parole che
usiamo e del loro significato recondito, del pensiero che sottintendono e che inconsciamente e inaspettatamente
tradiscono. L’artista immerge il visitatore tra i fantasmi, donne di cui è rimasto il guscio che evoca esistenze segnate da una
molteplicità di ferite – fisiche, spirituali, emotive – tanto più profonde quanto più invisibili; esperienze traumatiche, dolorose,
faticose nascoste tra le pieghe di una normalità che nessuno vuole indagare, seppellite sotto strati e strati di doveri e divieti,
zavorrate all’inferno dal peso insostenibile dei sensi di colpa. Sì, perché se “l’uomo, in una parola, ha bisogno di avere la prova
inconfutabile della sua manchevolezza (…) la donna crede sempre di poter essere colpevole finché non le venga dimostrato il
contrario” (cit. E.G.Bellotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli Editore). È il peso del vuoto, l’eredità infame di secoli di
sottomissione e di dipendenza; come dice Giagnacovo di uno dei suoi eterei abiti/corpo – “nulla che veste il nulla”. Annie
Ernaux, premio Nobel per la Letteratura, scrive che una sera agli inizi degli anni Settanta si era chiesta per la prima volta
“perché i supermercati non fossero mai presenti nei romanzi che si pubblicavano, quanto tempo ci volesse affinché una
realtà nuova potesse assurgere alla dignità letteraria”. Per tutta risposta nello stesso libro, scritto quasi quarant’anni dopo,
ipotizza che una delle ragioni sia che “i supermercati sono collegati alla sussistenza, roba da donne, che infatti ne sono state
a lungo le principali avventrici. E ciò che rientra nello spettro delle attività più o meno specifiche delle donne è
tradizionalmente invisibile, non preso in considerazione, come d’altronde lo è il lavoro domestico che svolgono. Ciò che non
ha valore nella vita non ne ha nemmeno in letteratura.” (Annie Ernaux, Guarda le luci amore mio, L’Orma Ed.)
La mostra di Donatella Giagnacovo ci desta da un torpore indotto da una sottovalutazione delle ombre lunghe delle
dinamiche relazionali tra gli individui, tra gli stessi e le comunità in cui vivono, tra queste e la società contemporanea: cullati
da una ambigua certezza di aver ormai superato brillantemente i tempi oscuri della discriminazione nella nostra società
matura e impermeabile a fenomeni sessisti, continuiamo a considerare ogni femminicidio come uno sporadico, tragico,
singolo evento eccezionale, a giudicare inevitabile che una giovane donna sia costretta a scegliere tra carriera e famiglia, a
fornire un alibi a pratiche famigliari di segregazione (a partire da quella linguistica) di donne di etnie diverse giustificandole
con l’applicazione di costumi e abitudini tradizionali e culturali differenti, barattando, a tutti gli effetti, la piena libertà delle
donne con la nostra coscienza tranquilla.
La drammatica urgenza delle molte istanze legate al femminile è restituita qui da un’uniformità monocromatica comune a
tutto il corpus di opere: il bianco diviene esso stesso linguaggio e metafora di quell’ambiguità tra essere ed apparire che
spesso inganna nella percezione della realtà. Evocativo di un ideale di purezza, a differenza del colore che è clamore, rumore,
caos, il bianco induce una condizione di rilassato abbandono, allude a una quiete domestica e sicura – suggerisce
inconsciamente il silenzio di un paesaggio innevato o le lenzuola che sventolano all’aria aperta ad asciugare al sole
primaverile – sottolineando quanto sia facile, rassicurati dall’apparenza, non accorgersi della vera sostanza delle cose che
vediamo. Ci muoviamo a lungo tra queste figure leggere quasi in uno stato di piacevole suggestione prima di riuscire ad
udire e comprendere la loro voce e destarci da un sonno che è rifugio e difesa dalle brutture della veglia per scoprire la
struggente verità che il bianco aveva così diligentemente custodito. Transitiamo dunque con una nuova consapevolezza
attraverso il percorso della mostra in cui riconosciamo ora una moderna e laica via crucis, espiando la colpa di una
superficialità diffusa che in parte è endemica del nostro tempo e che non raramente poggia sulle spalle dei più indifesi. Ne
usciamo sicuramente scossi dall’aver improvvisamente sollevato il velo su una realtà che sembrava altra da ciò che è.
L’arte fa questo: suscita domande. Non fornisce risposte. L’artista consegna un testimone, l’invito ad andare oltre la
superficie, ad agire per cambiare le cose, per alleggerire quel peso e colmare quel vuoto che non appartengono solo
all’altrove.